Se siamo qui è anche per quel Moro. Poco più che trentenne, fondatore e direttore della ruspante testata Fare Vela, volai a San Diego dove per la prima volta una barca italiana era arrivata fino all’impossibile: faccia a faccia con un defender per la conquista dell’America’s Cup. Con il ventenne fotografo Andrea Falcon. Sull’aereo American Airlines si fumava, in cabina era nebbia fitta. E San Diego, la California, l’America, erano opulenza, solidità, certezza. Né muri né estremismi. Camminavamo sulla spiaggia aperta davanti alla casa di Bill Koch, il miliardario dietro alla difesa USA, piena di sculture di Botero, e le darsene tutte intorno piene di barche a vela. Potevi credere che tutto sarebbe rimasto così e persino meglio. O anche che una barca italiana potesse vincere.
Da quel periodo, grazie alla passione e alla concretezza di un altro trentenne, Antonio Giudici con Atlantis Edizioni e con il supporto (allora si poteva) di Rothmans Publications (che editava persino portolani del Mediterraneo), scaturì una settimana di fuoco, sette-giorni-sette nei quali nacque “Il Moro, diario di un sogno italiano”, che uscì prestissimo dopo la Coppa. Una storia che ci ha segnato e ancora ci segna. Se siamo qui è anche per quel Moro. (FC)
DALLA INTRODUZIONE DI CINO RICCI
(…) In questo diario il lettore, lo smaliziato velista o l’appassionato dell’ultima ora, non troverà un’analisi serrata del perché il Moro non ha vinto. Certo: indicazioni pareri e indizi non mancano, ma il libro non vuole fornire spiegazioni precostituite, per una ragione molto semplice: vuole mettere il lettore in condizione di formulare esso stesso la propria ipotesi.
L’autore di questa cronostoria che si legge tutta d’un fiato, in una tirata, non ti mette in un angolo suo. Non rilascia sentenze, ma racconta i fatti consentendo a tutti di entrare dentro i segreti di una macchina organizzativa difficile e complessa quale è una campagna di Coppa America: gli uomini, i progetti, i denari, le basi, le regate… Senza tante sottigliezze, come si conviene un racconto. Vivace, perché scritto subito dopo la conclusione dell’avventura del moro. Fresco: frasi e periodi non sono ancora manomessi da troppa logica o da troppi ragionamenti.
Del resto il Moro, se non ha vinto la Coppa America, ha vinto un’altra battaglia, più grossa: è riuscito a prendere il posto nel cuore degli italiani che apparteneva ad un’altra barca famosa Azzurra del 1983. (…)
PROLOGO – (La descrizione dietro le quinte dei giorni che portarono alla decisione di una sfida alla Coppa America, dopo che Il Moro di Venezia aveva vinto il mondiale Maxi, categoria di barche che si avvicinava alla nuova Classe America’s Cup. Luoghi, uomini, decisioni)
(…) In questi giorni di settembre 1988 soleggiati e ventosi come sempre a San Francisco, l’equipaggio del maxi Il Moro di Venezia di Raul Gardini è impegnato nella regata che vale una stagione: l’ultima serie del campionato del mondo maxi. Progettisti, armatori, barche, cantieri, timonieri, tattici, prodieri: in acqua e a terra ce n’è abbastanza per dire che una buona parte del meglio della vela si è ritrovata in questa baia. Al timone del Moro c’è Paul Cayard, californiano proprio di San Francisco, pupillo di Raul Gardini che dal 1985 gli ha affidato le sue barche e più in generale i suoi progetti legati alla vela. Il Moro non dipende solo dalle sue mani sulla ruota del timone: l’allora ventinovenne Paul, laureato in business management all’Università di San Francisco, è il responsabile generale di tutta l’organizzazione. Vale a dire che se Raul Gardini spende i suoi 2 miliardi, arriva in banchina e sale a bordo di una macchina perfetta, l’opera è sua. Non è da sottovalutare il ruolo di Gabriele Rafanelli. Questo signore di Grosseto dalla faccia simpatica, dal 1983 segue per Gardini la costruzione delle barche, la gestione e l’organizzazione dell’equipaggio. E’ uno dei project manager più apprezzati dello yachting internazionale, ed è anche diventato uno dei maggiori produttori di accessori nautici al mondo. Gardini se lo tiene ben stretto.
Cayard non si lascia sfuggire l’occasione di giocare in casa: il Moro vince cinque regate su cinque ed è campione del mondo maxi 1988. Per German Frers è il coronamento di un lavoro iniziato 14 anni prima, con il primo maxi di Gardini. Per Paul Cayard è la conferma di aver ottenuto il massimo dei grandi mezzi avuti a disposizione. Per Raul Gardini e il germe dell’idea.
Nella serata del titolo, ne parla di sfuggita con la persona di cui si fida di più: Angelo Vianello, da oltre 20 anni suo marinaio di fiducia e divenuto col tempo anche suo grande amico. Poi ci dorme su. Allo Hyatt hotel.
L’indomani dopo la routine dei lavori a bordo e dell’organizzazione del rientro in Italia, Gardini convoca al bar dell’hotel per colazione quattro persone: Angelo Vianello, che arriva per primo, Paul Cayard e Gabriele Rafanelli, che raggiungono il capo insieme dopo una doccia, e German Frers. Il progettista argentino è in ritardo. Quando arriva, Raul ha già iniziato a parlare: “Sono interessato alla nuova classe Coppa America di cui si parla. Seguiamone negli sviluppi. Se davvero andasse in porto significherebbe correre l’America s’Cup con scafi non molto diversi dai nostri maxi. E noi abbiamo appena vinto il campionato del mondo…”
Per chi conosce Gardini – e quei quattro lo conoscono bene – e chiaro che si tratta di un colpo di fulmine. E uno come lui, se si innamora, fa sul serio.
L’ipotesi è accolta con entusiasmo da tutti i presenti anche se appare molto remota. Si sa, tanto per cominciare, che un comitato tecnico è al lavoro per studiare le caratteristiche delle nuove barche da coppa America, dopo l’incresciosa vicenda della sfida neozelandese con un “barcone” di 90 piedi al quale Dennis Conner ha opposto il mini defender catamarano Stars and Stripes. I 12 m stazza internazionale sono indicati da più parti come scafi sorpassati: si pensa proprio a barche delle dimensioni di un maxi, costruite in composito, con albero in carbonio e sartiame in cobalto. Ma la realtà del presente è che la coppa America è chiusa in un’aula della corte suprema di New York, per la lite tra americani e neozelandesi sull’interpretazione del Deed of Gift (l’atto di donazione che ha dato origine alla centenaria storia del trofeo).
Fra i cinque presenti al bar dell’Hyatt hotel di San Francisco nasce comunque un’intesa di base, la bozza di una task force che si è data da subito un obiettivo chiaro, all’indomani di un successo che ne ha mostrato chiaramente la competitività ai massimi livelli: una sfida italiana alla 28ª America s’ Cup.
Raul Gardini non aspetta che Carmen Ciparick, magistrato della corte suprema di New York, decida se la coppa si svolgerà a Auckland in Nuova Zelanda o a San Diego in California. Sulla nuova classe Coppa America sembra ormai esserci una vasta intesa internazionale. Sceglie lo yacht club che lo dovrà rappresentare: chiede alla Compagnia della Vela di Venezia, di cui è presidente Giulio Donatelli, di accettare di rappresentarlo nell’impresa. Donatelli accetta e firma un accordo. Rafanelli ottiene una proxy, in base alla quale diviene loro rappresentante.
L’8 novembre 1988 Rafanelli consegna ufficialmente la sfida a San Diego chiamata Il Moro di Venezia.
Poco prima di Natale, Raul convoca un’altra riunione. Gli attori sono gli stessi: Vianello, Cayard, Rafanelli, Frers, più due novità. Una è Adam Ostenfeld, professione project manager del Moro III, amico di Paul Cayard, già in coppa America con il team di Dennis Conner. L’altra è Italo Trapasso, vicepresidente della Montedison, la holding industriale del gruppo Ferruzzi di cui Gardini era presidente. La Montedison sceglie di entrare al fianco del Moro per le grandi possibilità offerte ai materiali compositi avanzati da essa prodotti. Trapasso entra nel team come vicepresidente e coordinatore della partecipazione tecnologica di Montedison.
L’incontro è fissato in Argentina. Il luogo è Entre Rios, una località a 200 km da Buenos Aires dove Gardini ha invitato tutti alla fazenda Las Cabezas, la casa delle vacanze della famiglia Ferruzzi. 20.000 etari di terreni coltivati, pascoli, distese infinite e una magnifica villa in stile coloniale. Gardini passa qui ogni Natale. Stavolta Las Cabezas diventa per tre giorni il quartier generale della sfida italiana del Moro di Venezia. E’ la riunione operativa, delle decisioni. Inizia a disegnarsi il progetto fatto da Raul e da Paul. Si decide come far prendere la residenza italiana a tutti i componenti stranieri del team. Si parla di come sistemare una base operativa in Italia, si traccia un calendario, le tappe della marcia verso San Diego, si impostano i capisaldi ideologici della sfida: non sarà una sfida per partecipare, ma per vincere. Viene stilato il primo organigramma: Gardini presidente, Trapasso vicepresidente, Cayard skipper e direttore generale, Rafanelli direttore amministrativo, Frers progettista. E il nucleo si mette subito al lavoro.
AMERICA’S CUP – (La cronaca della premiazione emozionante sul prato del SDYC, e alcune riflessioni, che poggiano su numeri, cifre e aspetti sociali, interessanti da rileggere 30 anni dopo, perché si capisce quanto e come sono cambiate le cose, a livello geopolitico. Anche quanto è cresciuta la vela italiana, allora definita “Cenerentola”, e che poi ha conosciuto altre sfide con l’era di Luna Rossa)
(…) “Grazie Raul, grazie San Diego, bravi America Cubed”. Enrico Chieffi la riassume così. Sono, le sue parole, il suggello finale della lunga sfida, dell’avventura del Moro di Venezia dal finale agrodolce. Le pronuncia a una folta ed emozionata platea già toccata dura dalla commozione di Paolino Cayard nel tradurre agli americani la fede internazionalista del suo boss, la determinazione di Raul alla conquista del prato del San Diego Yacht Club.
È qui che si svolge la cerimonia di premiazione e chiusura dell’America s’ Cup. Una cerimonia non dissimile da ogni altra chiusura di regata. Ci sono presidenti di club, giudici, skipper e armatori, equipaggi, signore e signorine, giornalisti e fotografi, premi, rinfreschi. Magari anche, come in questo caso, piscine tondeggianti, Jacuzzi, barbecue tra le palme, mille e mille chiome bionde che sventolano bandierine a stelle e strisce. Ma è questa premiazione a non essere come le altre. Per il semplice particolare che al centro del palco, sotto la pagoda del San Diego YC c’è il ferro che da 130 anni scatena le passioni più incontrollate e apre i portafogli più satolli ai quattro angoli della terra: The One Hundred Guinea Cup, la coppa delle 100 Ghinee che il Royal Yacht Squadron mise in palio e perse a beneficio della goletta progettata da George Steers nel 1851: America. Se la leggenda iniziata da qui, se in seguito è durata fino al 1983 (l’anno della vittoria australiana) e se continua adesso con il capitolo San Diego (già tre volte vincitore), c’è da capire tante cose.
Dal frenetico agitare di stelle strisce alla lacrima facile (di Cayard, della platea, del sindaco di San Diego Mareen O’Connor, che alla fine non si tiene e abbraccia e bacia Raul con trasporto), a certe scelte cerimoniali. Come quella del lento scivolare in darsena delle due barche impavesate, al suono dei rispettivi inni nazionali storpiato dall’orchestrina del prato. Non sono loro le protagoniste? O come l’equipaggio cubano incravattato mentre i mori ostentano gli shorts e l’ormai celebre gilè husky verde marcio. Non abbiamo molto da festeggiare, facciamo capire noi. Anche Cayard è senza cravatta. Solo il chairman, Mister Raul Gardini, ce l’ha. Ma in compenso spara in faccia a tutti idee e concetti (a una premiazione e raro) nel suo italiano franco (dell’inglese non ne vuole sapere) tradotto non sempre integralmente da Paolino (che ogni tanto, a scanso di equivoci, fa “he said that”).”Io e Paolo abbiamo vissuto questa avventura come un fatto di cultura – dice Gardini – ci siamo parlati per molto tempo, per capire perché stavamo insieme io e lui, lui è americano e io italiano. E ci siamo detti: noi dobbiamo farlo capire quanto è importante eliminare le barriere. eliminare gli impedimenti. Paul esita a tradurre. Quando parte la sua voce è già tremolante, gli occhi lucidi. Arriva a fatica alla fine della frase, poi scoppia in lacrime e abbraccia Raul. Gli americani sono frastornati: non si aspettavano un Gardini così e tantomeno un loro “figlio” tanto legato a lui: parte un applauso di stupore, molti si emozionano, poi Paul sorride e Gardini riprende. I due minuti e 15 secondi di applausi per il team del Moro contro il minuto scarso tributato a Koch e ai suoi cubani sono forse l’ennesima americanata, ma fanno piacere. Raul conferma più o meno direttamente che tornerà perché gli è proprio piaciuto. Poi la frase di Enrico, il portavoce di tutto l’equipaggio.
(…) E’ possibile trarre un bilancio della saga del Moro? Diciamo subito che è più comodo farlo da San Diego, magari al 30º piano dell’American Plaza dal quale si gode una vista entusiasmante sulla seconda città della California, compreso aeroporto, stazione ferroviaria in stile, la mega base di Coronado, le mille darsene che ospitano, pensate, centomila imbarcazioni da diporto. Solo San Diego. Due yacht club, migliaia di vile sparse sulle colline tra Point Loma e Mission Bay. E barche dappertutto. 100.000, abbiamo detto. Ecco perché il bilancio va fatto da San Diego. Cos’è l’America s’ Cup se non il confronto tra mondi nautici, tra culture veliche? Pensate che basterebbero i miliardi da soli a vincere? Siete fuoristrada. Se dietro al magnate di turno non c’è una popolazione che va per mare, non c’è una sfida all’America s’ Cup. E se è vero che la San Diego delle 100.000 barche ha persino negato al suo figliol prodigo Dennis Conner i soldi per la difesa vincente, è pur vero che alla fine ha abbracciato l’ex antipatico Bill Koch che ha tenuto la brocca nella pagoda, la coppa-simbolo nel suo paese. Come è vero che nonostante la dedizione leggendaria l’irlandese Sir Thomas Lipton (Royal Ulster Yacht Club) non riuscì in ben cinque sfide a strappare la coppa alle barche USA, allora tutte disegnate da Nat Herreshoff. Doveva essere l’Australia, paese con milioni di praticanti velisti, a riuscire lì dove avevano fallito inglesi, irlandesi, scozzesi, canadesi e dove in seguito hanno fallito nel 1988 i neozelandesi (3 milioni di abitanti, 2 di velisti) e nel 92 gli italiani. Capito? I francesi che sono i francesi non sono mai arrivati ad una finale di America s’ Cup, nonostante il barone Bich. Considerazioni utili per arrivare al bilancio moro che stiamo tentando. (…)
L’Italia senza porti turistici, l’Italia della vela Cenerentola, grazie a Raul Gardini, ai suoi uomini e alla Montedison, è salita fino alla vetta. Ci è arrivata stanca e inebriata. E le è mancato il fiato per gridare più forte. E forse non sarebbe bastato lo stesso, contro il vento delle centomila barche di San Diego, mille delle quali erano in acqua ad applaudire i simpatici italiani ma sostenere il gigante americano. E’ fra le cento baie di San Diego che si annida la coppa: fra i Catalina 22, in McGregor 26, piccoli cabinati e grande vela. Il Moro di Venezia ha portato anche noi a vedere, a sfidare, questa grande vela. Abbiamo perso la sfida… Poteva davvero andare diversamente?
CONTROSTORIA (Il capitolo che è piaciuto a Raul Gardini. Una serie di piccoli dettagli, di slidind doors, capaci di cambiare il corso degli eventi. Scelte tecniche, strategiche e persino scaramantiche (come la famosa colorazione della barca rossa, che storicamente ha sempre perso in Coppa America), che alla fine riscrivono la storia con la vittoria del Moro…)
Come poteva andare se… È possibile tracciare una controstoria della coppa America 1992 e arrivare alla vittoria del Moro eliminando errori e situazioni che ne hanno frenato la fantastica rincorsa? Forse sì. Proviamoci.
Maggio 1991, mondiali a San Diego. Moro 2 non rompe l’albero a due settimane dalle regate. Al campionato si iscrivono Moro 1 e Moro 2. Il primo portato da Cayard e dall’equipaggio A, raggiunge la finale contro i neozelandesi e viene battuto di un soffio al termine di una regata entusiasmante. Il Moro 2 batte nella finale per il terzo posto i giapponesi di Nippon. Il bilancio del mondiale in casa Moro è altamente positivo: un secondo e un terzo posto, la sfida continua sulla strada intrapresa. Il Moro 3, che già arrivato a San Diego, è rimasto alla base, nessuno l’ho ancora visto all’opera. Effettuerà le prime uscite dopo qualche settimana, suscitando impressione per la sua poppa completamente aperta segno di un sistema costruttivo avanzato, ma le sue prestazioni resteranno un mistero (che a Moro City si guarderanno bene dal chiarire) e a nessuno salterà in mente di copiare la terza barca di Gardini. Non sarà la barca da seguire, non farà da apripista a nessuno, America Cubed e Kanza forse avrebbero una genesi diversa e una base progettuale più lontana da quella del Moro 3.
Giugno 1991, Ravenna. Al consiglio di amministrazione della Serafino Ferruzzi Srl Raul Gardini ci va, prende la parola e stravolge i piani di Arturo e della famiglia Ferruzzi. Anziché arrivare al divorzio si arriva ad un clamoroso rilancio dell’alleanza: Raul Gardini ha carta bianca sul presente e sul futuro del gruppo Ferruzzi, che sotto la sua guida è divenuto il secondo gruppo industriale privato in Italia. Quanto alla Montedison i risultati brillanti del Moro di Venezia al mondiale e il grande successo riscosso da Tencara, il cantiere che ha in portafoglio ordini per altri tre anni, convincono lo sponsor a ritoccare al rialzo il proprio impegno per spingere la barca italiana verso la conquista dell’America s’ Cup. German Frers progetta una sesta barca che accoglie le più recenti scoperte rivelate dai test e dalle ricerche dei tecnici di moro siti e che va subito in cantiere. Sulla quinta e sulla quarta vengono provate appendici più estreme rivoluzionarie di quelle studiate fin qui. Alcune di queste danno risultati assolutamente inattesi.
Si vara il Moro 6 più stretto e basso del 5, di cui risolve anche i problemi di centratura. La barca ha una colorazione rosso molto più chiaro tendente al rosa. Viene chiamata la Pink boat. I grossi loghi Montedison sulla fiancata sono in rosso più scuro anziché in bianco. L’impegno della Texindustria per produrre il tessuto di fibre di carbonio usato per fabbricare le vele nere del moro è incrementato (…)
Alla finale contro New Zealand il Moro 6 arriva nella sua configurazione ottimale definitiva pronto per l’America s’ Cup. Alla seconda vittoria illegale dei kiwi viene scatenata la battaglia legale preparata già da tempo con tutte le prove del caso. Non c’è bisogno di fare le nottate per mettere insieme le prove che convincano la giuria. Al termine delle regate vittoriose per la Louis Vuitton Cup, Cayard lascia tutti un lungo weekend di riposo. Alla ripresa solo piccole sgambature col Moro 6 rimesso in sesto dal B team e dai tecnici. Gabriele Rafanelli ha concluso un accordo con il team Dennis Conner. In cambio delle informazioni sulle barche di Bill Koch raccolte da un rappresentante del consorzio italiano che verrà fatto infiltrare in Stars & Stripes durante tutte le Defender Series, offre allo skipper di San Diego un luogo esclusivo è un contratto favorevole per l’affitto della base di Stars & Stripes nella laguna di Venezia per la coppa America 1995.
Quando il 9 maggio il Moro 6 America Cubed scendono in acqua e si confrontano per la prima volta appare subito evidente il divario di prestazione in favore dello scafo della Pink boat italiana. Paul Cayard vince per 1 minuto e 50 secondi la prima regata, dopo aver vinto anche la partenza contro Dave Dallenbaugh. Nella seconda, più combattuta, il vantaggio finale della barca italiana sarà di 31 secondi. Terza regata di rimonta per il moro, partito in ritardo e danneggiato da un salto di vento: ma la velocità dell’ultimo scafo di Frers è nettamente superiore a quella della barca americana, consente il recupero e alla fine fa vincere Cayard per 35 secondi. America Cubed cambia timoniere si affida a John Kostecki. E’ un segno di debolezza che non paga: gli americani perdono anche la quarta regata per circa 50 secondi: Il Moro di Venezia conquista per l’Italia la coppa America con i colori della Compagnia della Vela di Venezia. Tutto bello e interessante. Ma è solo controstoria. La storia è un’altra cosa… E tutto sommato, è giusto così.